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L’edificio oggetto di recupero, situato sulla collina di Posillipo, realizzato nel dopoguerra è stato progettato da Carlo Cocchia. Gli anni 50 e 60 del secolo scorso, rappresentano nella storia dell’architettura italiana, la convergenza tra ingegneria e architettura. Questo è il periodo storico della rinascita politica, sociale ed economica dell’Italia dopo la guerra, gli anni del boom economico. Negli anni della ricostruzione e della successiva crescita economica, si afferma una cultura condivisa del costruire cui partecipano in uguale misura ingegneri e architetti, grandi imprese e industrie. Per figure di rilievo di quel periodo, ingegneri come Nervi o Morandi, ma anche per architetti come Gardella, Libera o Castiglioni, il dato costruttivo e strutturale è elemento pregnante nella genesi del progetto. Carlo Cocchia è stato tra gli epigoni più autorevoli di un lavoro progettuale all’intesa della ricerca paziente, del controllo del processo progetto - realizzazione, del prolungamento delle ragioni della cultura nelle ragioni del mondo dell’imprenditoria e del cantiere. I suoi esordi risalgono alla fine degli anni Trenta con le opere della Mostra d’Oltremare di Napoli, ispirate al razionalismo tedesco ed olandese. Dagli anni Cinquanta in poi, Cocchia opera sul triplice fronte dell’insegnamento, della professione e del dibattito politico-culturale alimentato dai temi della ricostruzione post-bellica. Portano la sua firma i quartieri di edilizia economica e popolare a Barra e a Secondigliano, con uno stile che spazia dal razionalismo funzionale al neorealismo organicista. Si afferma con maggiore evidenza nell’ambito delle grandi opere pubbliche, come lo stadio San Paolo, la Stazione Centrale, la Facoltà di Medicina e Chirurgia, le Nuove Terme di Castellammare di Stabia. Cocchia è stato sempre fedele ad un linguaggio di marca razionalista e di alto profilo qualitativo, attento a recepire negli anni Cinquanta le suggestioni meno vernacolari del neorealismo. L’edificio è stato oggetto di interventi di recupero conservativo delle facciate, interpretato nell’accezione dell’intervento sulla modernità che non può ridursi alla constatazione della opportunità della conservazione dei segni del tempo sull’opera, o della forzatura della anacronistica restituzione ad un periodo trascorso, o di una manutenzione invasiva e snaturante.