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L'intervento riguarda il recupero di Palazzo Gualino, storica sede delle società dell'imprenditore torinese che fece realizzare l'edificio nel 1930, dagli architetti Pagano e Levi Montalcini. Il progetto ha lavorato sul restauro conservativo e sul conteniomento degli effetti del cambio d'uso da uffici a residenza. Affrontare il progetto di recupero di un simbolo dell’architettura del Novecento, così denso di significati, così recente, ha posto problemi di metodo, non ancora sedimentati nelle pratiche correnti, nella cultura del restauro. Le azioni di recupero e di trasformazione, proposte per Palazzo Gualino, non vogliono cedere alle retoriche della conservazione acritica, ma perseguire l’obiettivo del recupero, del far rivivere l’architettura all’interno di un tessuto urbano e sociale trasformato rispetto al periodo della sua realizzazione, attraverso un aggiornamento dei caratteri distributivi richiamati nel cambio d’uso e un adeguamento degli apparati tecnologici. Il restauro è affiancato da contenuti interventi di modifica e di addizione rispetto all’esistente, coerenti con la nuova destinazione e, insieme, con l’impianto antico, con il materiale di origine. È l’equilibrio fra il restauro e le misurate trasformazioni a permeare il progetto: la copertura piana, su corso Vittorio Emanuele II, affaccio privilegiato sul Parco del Valentino, liberata dalle presenze non appartenenti al primo progetto, ospita la “lanterna delle tecnologie”, un volume sottile, trasparente, adagiato sul lastrico solare, appena percepibile da corso Vittorio, che in un unico spazio custodisce le nuove dotazioni tecnologiche. Del progetto si può ancora dire che di fronte a uno scenario complesso, fatto di storia, di carica ideologica oggi venuta meno, di valori da ricercare fra i caratteri permanenti dell’architettura, ha prevalso un atteggiamento di tipo interpretativo, ermeneutico, dove gli interventi, quando non di restauro, cercano relazioni di compatibilità con il materiale d’origine, di coerenza con la costruzione del 1930. È stata ricercata una sintonia, un’intonazione con l’operato degli autori e della loro posizione nei confronti dell’architettura. E, se la carica simbolica di quella realizzazione sembra essere venuta meno e l’esortazione di Gigi Chessa, sul numero monografico di «Domus» – salutiamolo quindi, prima di tutto come un fatto morale (Chessa 1930) – sembra aver perso ogni tensione ideologica, i valori formali dell’architettura rimangono a testimoniare nella contemporaneità l’efficacia dell’opera di Pagano e Levi-Montalcini: una “nuova costruzione moderna per uffici in Torino”.